Per riuscire a inquadrare correttamente la figura del mercenario greco in Sicilia è utile, se non indispensabile, tracciare a grandi linee una descrizione della tirannide siceliota, senza la quale il mercenariato non avrebbe raggiunto l’ampia portata che lo contraddistingue. A tal proposito, in un passo delle Storie, Tucidide accenna all’unicità della situazione siciliana rispetto a quella della Grecia continentale.
In madrepatria la tirannide appare limitata all’età arcaica e costituisce una reazione ai ristretti regimi oligarchici delle città aristocratiche, trovando appoggio nello scontento delle masse popolari e nel loro desiderio di rinnovamento sociale. Non si tratta di un fenomeno dalla durata tale da potersi addurre alla storia costituzionale di una città, ma di un fenomeno sociale che si esaurisce entro un arco limitato di anni, con la nascita della democrazia di età classica.
La realtà siciliana, eccetto forse per i più antichi tiranni demagoghi (Panezio di Lentini, Cleandro di Gela) o Esimneti (Falaride di Agrigento), diverge totalmente da quella della madrepatria[1]. invece che esaurirsi, la tirannide siceliota raggiunge il suo culmine proprio in età classica, configurandosi come una forma di governo a tutti gli effetti[2], della durata di più di due secoli (con un breve intermezzo democratico). I tiranni assumeranno un potere personale tale da andare oltre qualsiasi legge, basando la loro autorità sull’impiego massiccio di mercenari.
Il mercenario, quale uomo retribuito in cambio dei suoi servigi, va inquadrato in un ambiente guerresco, in quanto al di fuori di tale contesto la sua figura non avrebbe avuto motivo di esistere. La guerra, infatti, era parte integrante della vita della polis e il mercenario ne divenne presto protagonista. Secondo il modello autarchico, del “bastare a sé stessi”, ciascuna città-stato avrebbe dovuto essere autonoma dal punto di vista economico e produttivo, oltre che provvedere da sé alla difesa del proprio territorio, ponendo i cittadini tra le fila dell’esercito. Si sarebbe venuta così a creare una perfetta corrispondenza tra cittadino e soldato, tra posizione politicosociale rivestita all’interno della comunità e collocazione all’interno dell’esercito.
Perseguire un simile ideale non era che un’utopia, peraltro inconciliabile con la logica delle guerre espansionistiche e con le ambizioni di potere dei tiranni sicelioti[3].
Mauro Moggi evidenzia una sostanziale differenza tra le guerre della madrepatria e quelle combattute in terra siciliana; queste ultime appaiono più violente e meno ossequiose delle regole previste dal codice oplitico. Conseguenza di ciò erano le devastazioni di intere città, snaturate da trasferimenti forzati di popolazione e massacri terribili[4].
Appare chiaro che senza i mercenari al proprio servizio i tiranni non avrebbero potuto conquistare e, soprattutto, mantenere il proprio potere personale, né intraprendere le importanti guerre di conquista che li avrebbero portati ad estendere sempre più l’influenza siceliota sino alla contigua Magna Grecia. Senza di essi, inoltre, non avrebbero avuto le risorse per contrastare l’elemento punico e difendere la Grecità d’Occidente dai barbari, considerato che anche i Cartaginesi facevano da tempo uso di un esercito professionale. Per intraprendere battaglie di pari livello, quindi, le truppe mercenarie si rivelarono indispensabili, e uomini addestrati e specializzati nell’arte della guerra furono sempre più richiesti[5]. Si comprende, così, quanto il mercenariato greco in Sicilia fosse un fenomeno indissolubilmente legato alla nascita della tirannide e indispensabile alla sua stessa sopravvivenza[6].
A tenere saldo il legame tra mercenari e tiranni vi erano interessi e vantaggi reciproci. Il mercenario poneva al servizio del tiranno la propria abilità in battaglia e la propria esperienza, nettamente superiore a quella che poteva fornire un comune cittadino; aveva una preparazione professionale, sia dal punto di vista fisico che psicologico, con un corpo allenato e la competenza necessaria ad affrontare a sangue freddo una battaglia (nella quale era molto alta la possibilità di perdere la vita)[7]. Enea Tattico, primo autore ad affrontare argomenti militari, parla dell’efficienza del mercenario rispetto al semplice cittadino nel suo trattatello sull’arte dell’assedio[8].
Il tiranno poteva offrire molto in termini di denaro, sia attraverso il regolare compenso spettante a ciascun mercenario, sia grazie alla possibilità di arricchimento personale per mezzo dei lauti bottini di guerra. Quello che però sembrava costituire una fortissima motivazione per buona parte di essi era il potere posseduto dai tiranni di andare al di sopra delle regole, di «sovvertire l’ordine costituito», dal quale molti mercenari erano esclusi e del quale intendevano entrare a far parte. Si ritrovavano così a rischiare la propria vita non soltanto per denaro, ma per la promessa di una cittadinanza, di un terreno da coltivare, di una vita migliore che, in quanto emarginati senza patria, non avrebbero più avuto la possibilità di costruire[9].
[1] BRAccESi 1998, pp. Vii-Xi.
[2] TAGLiAMONTE 1994, p. 99.
[3] BETTALLI 2013, pp. 19-26.
[4] MOGGI 2006, p. 67.
[5] TAGLIAMONTE 1994, pp. 97-99.
[6] BETTALLI 2013, pp. 19-20.
[7] Ibid., pp. 430-433.
[8] Enea Tattico, in Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/enea-tattico/
[9] Bettalli 2013, pp. 430-433.