Quando noi pensiamo, in genere, lo facciamo utilizzando le parole, cioè noi parliamo anche quando stiamo soltanto pensando. Ciò accade perché la verbalità fa parte del nostro quotidiano, e perché cominciamo ad apprendere e a riconoscere questa forma espressiva sin dalla nascita. Ciò è dovuto dal fatto che l’uso della parola, anche quando pensiamo, è una abitudine consolidata sin dalla prima infanzia e, in quanto tale, è un processo automatico.

Ti è mai capitato di avere la sensazione di conoscere qualcosa, il suo senso, significato, la sua realtà, senza aver pensato mentalmente con le parole, o con le immagini? Quando senti che quella cosa la sai e basta, su cui c’è poco da spiegare, che non esprimi con le parole?

Ebbene, quello è un atto di coscienza. Un evento cognitivo che ti trasmette la sensazione di sapere per davvero, una sorta di percezione di conoscenza profonda non espressa in forma verbale, una sorta di conoscenza a priori.

È la presa d’atto della mente, di un dato, che giunge alla nostra memoria e alla nostra attenzione e la sua particolarità è di non essere espressa in forma verbale, cioè con l’uso di parole.

L’atto di coscienza è, dunque, un dato di conoscenza che può essere, sia l’effetto di una emozione, sia il risultato di un dato materiale concreto, ma non necessariamente obiettiva. Non esprime, di per sé, la conoscenza di una verità; infatti, può essere sia espressione di una interpretazione emotiva della realtà, sia una interpretazione della realtà oggettiva.

Alcuni studiosi e teorici, ritengono che esso sia la forma di pensiero puro esistente prima che l’uomo cominciasse a creare il linguaggio fatto di parole.