Roland Barthes definiva quella occidentale, la cultura dei pieni, contrapposta a quella orientale classica chiamata dei vuoti. Chi parla del nulla (vuoti) se non ha cose da fare, parla di ciò che il semiologo francese chiamerebbe “riempitivi”.
Penso che dovremmo imparare a godere di ambedue le condizioni e, in un certo senso, a vedere un pieno anche nel nulla. Il nulla è una dimensione che solo l’uomo poteva concepire.
Il nulla è un’assenza, ma di cosa? Penso che sia assenza di ciò che, individualmente, vorremmo ci fosse o riteniamo debba esserci. Non un’assenza assoluta, ma un’assenza relativa: ai nostri bisogni, necessità, desideri, cognizioni del tempo, della materia e dell’energia (nei suoi vari intendimenti).
Per altro verso può anche trattarsi di paura del non essere. Se ritieni di non aver niente da fare, è come se ti sentissi nella condizione di non vivere, di non essere, di non affermarti sia come soggetto sociale, sia come soggetto interagente con lo spazio che ti circonda e con il tempo.
Se adotto questa visione, c’è l’implicazione del rapporto tra tempo e pieno, e tra tempo e vuoto. Anche perché la nostra vita è scandita dal giorno e dalla notte, dal sonno e dalla veglia, e dalla necessità di produrre la nostra sopravvivenza, non solo biologica, ma anche sociale e culturale.
Mentre in tanti stanno a domandarsi quale sia il senso della vita perché, in fondo, la vorrebbero associare necessariamente a qualcosa, io penso che sia quella domanda stessa a non avere senso.
Il senso della vita è la vita stessa.
Tu che ne pensi?
È vero che non si può modificare il passato, ma si può influenzare il futuro. Ciò non toglie che ci saranno nuovi impedimenti, nuovi errori, dolori e delusioni.
Ci saranno cadute, ricadute e sconfitte. Vivere è una sfida continua. Un lavoro consapevole su se stessi è senz’altro il mezzo migliore per rafforzarsi dal di dentro e creare una difesa naturale alla negatività. Certamente non possiamo cambiare la realtà esterna, ma possiamo agire su noi stessi per metterci in condizione di accettare il mondo esterno senza soffrirne troppo e in certi casi “girare” le situazioni a nostro vantaggio per uscirne vincitori. Nella filosofia buddista moderna non ci sono battaglie vinte a metà. Non si tratta di accettare compromessi penosi. È la trasformazione del veleno in medicina, una sorta di terapia omeopatica dello spirito. La consapevolezza buddista nasce piuttosto dall’affinamento della percezione, cioè a partire dai 5 sensi. Ci sono pratiche di meditazione che allenano(come una palestra psichica) i sensi e raggiungono il sistema cognitivo razionale. Da qui in poi, inizia il cammino verso il processo di annientamento graduale del giudizio.
Non è una cosa da realizzarsi in un batter d’occhio. La costanza (o la pazienza, come la chiami tu) è la condizione necessaria per la sua riuscita. E comunque.. una consapevolezza raggiunta oggi in un ambito o momento della vita non sarà mai una soluzione definitiva. Domani ci saranno altre sfide da affrontare. L`”Illuminazione” non è mai costante, così come costanti non sono tutti gli stati vitali* dell’essere umano.Un caro saluto. Gabriella
P:S.: per “Stati vitali” mi riferisco alla teoria dei “dieci mondi”. Troppo lunga per spiegartela in questo momento. Se ti interessa vai su google.
Grazie Gabriella per il tuo saggio contributo. Hai ragione nel dire che vivere è una sfida continua non priva di errori, dolori , delusioni e impedimenti. Proprio per questo in un articolo che ho scritto nell’altro blog (addio timidezza) ho parlato di quello che ho chiamato “pensiero possibilista”, in alternativa ai deleteri pensare positivo sempre e pensare negativo sempre. La vita ci riserba un variegato insieme di esperienze ed emozioni e noi dovremmo provare a farci trovare preparati ad accettare ciascuna di esse.
Nella meditazione consapevole, trovo un approccio pratico alla problematica dei pensieri pervasivi e invadenti e alla nostra tendenza (eccessivamente) giudicante delle nostre esperienze. Anche un approccio valido nel porsi nei confronti del tempo e dell’accadimento.
Tuttavia, non aderisco alla cultura buddista che, per certi versi, mi sta stretta. Citavi la teoria dei dieci mondi, questo approccio (o stile) descrittivo degli stati esistenziali, non li trovo confacenti al mio modo di concepire la diade corpo – mente e i suoi stati che considero, per dirla alla Maturana, un insieme articolato e complesso di relazioni tra semplici e complessi fenomeni di interazioni che coinvolgono i componenti della diade.
Ma, sia pure attraverso percorsi differenti, e più che altro legati al dominio della descrizione (qualcuno direbbe del come e del perché), ci ritroviamo a condividere il concepire l’approccio alla vita.
Condivido con te l’idea dell’incostanza del pervenire allo stato di consapevolezza ( che tu chiami illuminazione ) in quanto essa è legata al momento presente e alla fluttuazione degli eventi di quello che il Dalai Lama chiama paesaggio mentale. Ma ciò non mi preoccupa, non lo considero un obiettivo: ciò che conta è guadagnare un rapporto equilibrato con le nostre esperienze interne.