Chi sono
Luigi Zizzari, scrittore e mind coach
Viaggiatori o turisti? riflessioni sul viaggio
Interessi commerciali, spedizioni militari, migrazioni, desiderio di conoscenza, nel corso dei secoli, hanno spinto gli uomini verso luoghi diversi da quello di origine Nell’immaginario collettivo il viaggiatore più noto è Ulisse che dopo la distruzione di Troia, “andò tanto vagando, di molti uomini vide le terre e conobbe le menti”, fino al viaggio estremo, oltre le colonne d’Ercole. Talani Giampaolo – Viaggiatori Un aforisma di Sant’Agostino recita” il mondo è un libro e chi non viaggia ne conosce solo una pagina” Vero, ma a questo libro bisogna avvicinarsi con grande rispetto, leggerne con attenzione il contenuto, non sfogliarne superficialmente le pagine, limitandosi a guardare la bellezza delle illustrazioni o, peggio, ancora macchiandole. L’esperienza del viaggio permette il superamento del confine e della prospettiva di origine, amplia gli orizzonti, abilita al dialogo costruttivo, mette alla prova l’identità. L’antropologo Eric Leed nel saggio “La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale” ripercorrendo, dalla preistoria ad oggi, le forme del viaggio, le sue motivazioni, i suoi mutamenti, intende dimostrare che il viaggio agisce come una forza che muta la storia. 100
I Greci e il denaro: testimonianze letterarie
Il denaro, desiderato, venerato o condannato in ogni epoca, ha sempre esercitato un grande fascino sugli uomini. Un proverbio latino recita “Homo sine pecunia est imago mortis”. Pensare ad un’economia senza denaro è un’utopia. Ne era convinto anche Engels: “Il denaro è una merce universale con la quale tutte le altre sono scambiabili, con il denaro si può comprare tutto, ma inventando il denaro gli uomini non pensavano di creare con ciò una nuova potenza sociale, la sola potenza universale davanti alla quale tutta la società deve inchinarsi”. anelli di rame dell’Asia Minore risalente al 1770 a.c. Prima della moneta coniata gli uomini usavano come mezzo di scambio i beni che nel loro contesto sociale avevano un certo valore, prodotti della terra ,capi di bestiame come dimostrano le voci latine “pecunia” ”peculium” derivate da “pecus”(bestiame), pezzi di metallo più o meno prezioso, i Greci, gli obelòi spiedi di ferro, i Latini l’aes rude, un pezzo di rame privo di una forma e di un peso prestabiliti, ma c’era l’inconveniente che ad ogni scambio i pezzi di metallo dovevano essere pesati, infatti il verbo latino “pendere” significa sia “pesare” che “pagare” (Ennio De Simone, La moneta: ieri e oggi, Loffredo Editore Napoli). Il passaggio alla moneta coniata cioè garantita nel peso e nel valore, avvenne più tardi. Secondo il racconto di Erodoto Tetradracma-di-Atene-V-sec-ac i primi a coniare monete d’oro e d’argento furono i Lidi, all’epoca del re Gige (Hist.I,94). La società greca fu la prima a basarsi su un’economia monetaria. Erodoto nelle sue Storie riportando vicende accadute nel VII sec. a.C. racconta che una nave di Samo, comandata da Cole, spinta dal vento oltre le colonne d’Ercole, giunse a Tartesso, un emporio fino ad allor mai frequentato, dove i Sami riuscirono a vendere il loro carico, ricavandone sessanta talenti, il più largo profitto mai realizzato (IV,152). 100
Tirannide, mercenariato e guerra: Sicilia, una situazione particolare
Per riuscire a inquadrare correttamente la figura del mercenario greco in Sicilia è utile, se non indispensabile, tracciare a grandi linee una descrizione della tirannide siceliota, senza la quale il mercenariato non avrebbe raggiunto l’ampia portata che lo contraddistingue. A tal proposito, in un passo delle Storie, Tucidide accenna all’unicità della situazione siciliana rispetto a quella della Grecia continentale. In madrepatria la tirannide appare limitata all’età arcaica e costituisce una reazione ai ristretti regimi oligarchici delle città aristocratiche, trovando appoggio nello scontento delle masse popolari e nel loro desiderio di rinnovamento sociale. Non si tratta di un fenomeno dalla durata tale da potersi addurre alla storia costituzionale di una città, ma di un fenomeno sociale che si esaurisce entro un arco limitato di anni, con la nascita della democrazia di età classica. La Sicilia nell’antichità La realtà siciliana, eccetto forse per i più antichi tiranni demagoghi (Panezio di Lentini, Cleandro di Gela) o Esimneti (Falaride di Agrigento), diverge totalmente da quella della madrepatria[1]. invece che esaurirsi, la tirannide siceliota raggiunge il suo culmine proprio in età classica, configurandosi come una forma di governo a tutti gli effetti[2], della durata di più di due secoli (con un breve intermezzo democratico). I tiranni assumeranno un potere personale tale da andare oltre qualsiasi legge, basando la loro autorità sull’impiego massiccio di mercenari. Il mercenario, quale uomo retribuito in cambio dei suoi servigi, va inquadrato in un ambiente guerresco, in quanto al di fuori di tale contesto la sua figura non avrebbe avuto motivo di esistere. La guerra, infatti, era parte integrante della vita della polis e il mercenario ne divenne presto protagonista. Secondo il modello autarchico, del “bastare a sé stessi”, ciascuna città-stato avrebbe dovuto essere autonoma dal punto di vista economico e produttivo, oltre che provvedere da sé alla difesa del proprio territorio, ponendo i cittadini tra le fila dell’esercito. Si sarebbe venuta così a creare una perfetta corrispondenza tra cittadino e soldato, tra posizione politicosociale rivestita all’interno della comunità e collocazione all’interno dell’esercito. Perseguire un simile ideale non era che un’utopia, peraltro inconciliabile con la logica delle guerre espansionistiche e con le ambizioni di potere dei tiranni sicelioti[3]. Mauro Moggi evidenzia una sostanziale differenza tra le guerre della madrepatria e quelle combattute in terra siciliana; queste ultime appaiono più violente e meno ossequiose delle regole previste dal codice oplitico. Conseguenza di ciò erano le devastazioni di intere città, snaturate da trasferimenti forzati di popolazione e massacri terribili[4]. Appare chiaro che senza i mercenari al proprio servizio i tiranni non avrebbero potuto conquistare e, soprattutto, mantenere il proprio potere personale, né intraprendere le importanti guerre di conquista che li avrebbero portati ad estendere sempre più l’influenza siceliota sino alla contigua Magna Grecia. Senza di essi, inoltre, non avrebbero avuto le risorse per contrastare l’elemento punico e difendere la Grecità d’Occidente dai barbari, considerato che anche i Cartaginesi facevano da tempo uso di un esercito professionale. Per intraprendere battaglie di pari livello, quindi, le truppe mercenarie si rivelarono indispensabili, e uomini addestrati e specializzati nell’arte della guerra furono sempre più richiesti[5]. Si comprende, così, quanto il mercenariato greco in Sicilia fosse un fenomeno indissolubilmente legato alla nascita della tirannide e indispensabile alla sua stessa sopravvivenza[6]. A tenere saldo il legame tra mercenari e tiranni vi erano interessi e vantaggi reciproci. Il mercenario poneva al servizio del tiranno la propria abilità in battaglia e la propria esperienza, nettamente superiore a quella che poteva fornire un comune cittadino; aveva una preparazione professionale, sia dal punto di vista fisico che psicologico, con un corpo allenato e la competenza necessaria ad affrontare a sangue freddo una battaglia (nella quale era molto alta la possibilità di perdere la vita)[7]. Enea Tattico, primo autore ad affrontare argomenti militari, parla dell’efficienza del mercenario rispetto al semplice cittadino nel suo trattatello sull’arte dell’assedio[8]. Il tiranno poteva offrire molto in termini di denaro, sia attraverso il regolare compenso spettante a ciascun mercenario, sia grazie alla possibilità di arricchimento personale per mezzo dei lauti bottini di guerra. Quello che però sembrava costituire una fortissima motivazione per buona parte di essi era il potere posseduto dai tiranni di andare al di sopra delle regole, di «sovvertire l’ordine costituito», dal quale molti mercenari erano esclusi e del quale intendevano entrare a far parte. Si ritrovavano così a rischiare la propria vita non soltanto per denaro, ma per la promessa di una cittadinanza, di un terreno da coltivare, di una vita migliore che, in quanto emarginati senza patria, non avrebbero più avuto la possibilità di costruire[9]. [1] BRAccESi 1998, pp. Vii-Xi. [2] TAGLiAMONTE 1994, p. 99. [3] BETTALLI 2013, pp. 19-26. [4] MOGGI 2006, p. 67. [5] TAGLIAMONTE 1994, pp. 97-99. [6] BETTALLI 2013, pp. 19-20. [7] Ibid., pp. 430-433. [8] Enea Tattico, in Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/enea-tattico/ [9] Bettalli 2013, pp. 430-433.
Magna Grecia
L’espressione Megále Hellás indicava, già negli autori arcaici, l’Italia meridionale greca, quasi a sottolineare la ricchezza e la bellezza della regione rispetto alla Grecia continentale, caratterizzata da un territorio montuoso e da un suolo non proprio fertile. I Greci antichi escludevano dalla Magna Greca le colonie greche della Sicilia, che costituivano ai loro occhi una realtà a sé stante, a differenza dei Romani che nella Magna Grecia includevano sia le une che le altre. Della presenza greca nell’Italia Meridionale, in epoca lontana, troviamo tracce nei poemi epici, che in alcuni punti, attraverso la trama del mito, lasciano intravedere il ricordo di migrazioni di gruppi di Achei, in ordine sparso. Il greco Evandro, nel Lazio, accoglie Enea e gli fornisce aiuti contro i Rutuli, Ulisse nel suo girovagare per il Mediterraneo approda in Sicilia (episodio di Polifemo), sulle coste del promontorio del Circeo, con il quale Strabone identificava l’isola di Eea (la maga Circe), nel golfo di Napoli (le Sirene). La Megále Hellás nacque con la seconda ondata migratoria, che iniziò alla metà del sec. VIII, quando l’Ellade aveva ormai alle spalle i secoli bui del Medioevo Ellenico, e si protrasse fino alla metà del sec.VI. La deduzione di colonie fu dovuta a motivi di varia natura, primo fra tutti la necessità di trovare nuove terre per la popolazione, alla quale, a causa del rapido incremento demografico, le risorse agricole della madrepatria non erano più sufficienti. In altri casi a spingere altrove gruppi di cittadini furono i contrasti politici o la ricerca di nuovi mercati. In un primo momento i coloni andarono alla ricerca di nuove terre da coltivare, successivamente anche di buoni porti. L’Italia Meridionale e la Sicilia offrivano terre fertili, abbondanza di acqua e approdi favorevoli. Colonie greche in Italia Il nuovo movimento migratorio si diresse prima verso le coste dell’Asia Minore e successivamente verso quelle costiere del Mediterraneo settentrionale ed occidentale, dove si sviluppò in alcune direzioni, i Calcidesi verso la Campania e lo stretto di Messina (Cuma, Velia, Reggio), i Dori nella Sicilia (Siracusa, Agrigento), gli Achei del Peloponneso verso la costa calabra (Sibari, Crotone, Metaponto), gli Spartani verso il golfo di Taranto. Alcune colonie fondarono a loro volta altre città. I Sibariti fondarono Poseidonia, i Calcidesi di Cuma, ritenuta da Strabone la più antica colonia in Italia (720 a.C.ca), fondarono Neapoli. Grazie alla fertilità del suolo e all’operosità dei coloni a poco a poco quelli che erano solo luoghi d’approdo o centri di scambi commerciali divennero vere e proprie città che acquistarono potenza e ricchezza e nel giro di pochi anni, divennero più belle ed importanti della madre patria anche grazie a dinamiche innovative che determinarono ulteriori sviluppi politici economici e sociali. Il fatto che, secondo la tradizione antica, alcuni dei primi legislatori fossero originari di città occidentali, Zaleuco (metà del VII sec.) di Locri, Caronda (VI sec) di Catania, sta ad indicare che la migrazione portava spesso a sperimentare nuove forme di convivenza civile, caratterizzata da esigenze di maggiore uguaglianza tra i cittadini. Strabone in un passo della sua Geografia, attribuisce a Zaleuco il merito di aver sottratto l’attribuzione della pena all’arbitrio dei giudici, fissandola, nelle Leggi, uguale per tutti. Le leggi di Caronda furono adottate non solo nella sua città di origine, ma anche in altre colonie calcidesi, e a Reggio, dove, secondo la testimonianza di Aristotele, si trasferì in seguito all’esilio. Le colonie della Magna Grecia e della Sicilia, come le emissioni monetarie in oro, argento e bronzo del tempo, ebbero il massimo splendore tra il VI e il V sec. a. C.. In queste città arrivano dalla Grecia continentale artisti, poeti, filosofi, ma non mancano personalità di origine italiota o siceliota, come Archimede (Siracusa) e il pittore Zeusi (Eraclea). Per via della diffusione della ricchezza e delle ambizioni, non solo espansionistiche, dei tiranni, in molte città furono innalzati templi maestosi, come testimoniano i resti archeologici di Poseidonia (l’odierna Paestum), Selinunte, Segesta. Di pari passo con lo sviluppo economico e sociale si ebbe anche uno straordinario sviluppo culturale, favorito dal mecenatismo dei tiranni al potere. Nella seconda metà del VI sec a. C, Pitagora fonda a Crotone la scuola pitagorica e, verso la fine dello stesso secolo, Parmenide fonda a Velia la scuola eleatica. Intorno alla metà del VI sec. è attivo nella Magna Grecia il poeta Ibico, oriundo di Reggio che Cicerone nelle Tusculane (IV, XXXIII) considera il poeta d’amore più infiammato. Recita un suo frammento (Fr.286) ” …Ma per me Eros /non ha stagione di riposo… tenebroso, spietato, / squassa violento, dal profondo, / il mio cuore”1 Nacque ad Imera, colonia dorica, il poeta Stesicoro, le cui varianti del mito furono riprese da alcuni autori tragici, nota la revisione del mito di Elena, oggetto della tragedia omonima di Euripide. Paride avrebbe portato a Troia il suo eidolon (simulacro) e, mentre si combatteva per lei la lunga guerra di Troia, la donna più bella dell’antichità era in Egitto, ospite del re Proteo. Intorno al 475/476 si trasferisce in Sicilia il poeta Pindaro, ospite dei tiranni Ierone di Siracusa e di Terone di Agrigento, che celebra nelle sue odi per le vittorie da essi riportate ad Olimpia, Ierone con il cavallo Ferenico, Terone con la quadriga. Epicarmo, nativo di Siracusa, vissuto tra il VI e il V sec. al tempo di Gerone, è considerato da Aristotele, nella Poetica, il precursore della commedia attica. Il dinamismo sociale e politico determinò anche la nascita e lo sviluppo della retorica, che dalla Sicilia passò ad Atene. A Tisia di Siracusa, vissuto ai tempi di Gerone I è attribuita la composizione del primo manuale di retorica. Cicerone nel Brutus (46) scrive: “Apprendiamo da Aristotele che, quando in Sicilia fu abbattuta la tirannide, i cittadini ricominciarono, dopo un lungo intervallo, a far valere loro diritti davanti ai tribunali, e siccome quella gente era per natura ingegnosa e portata ai litigi, i siculi Corace e Tisia scrissero dei manuali sull’arte del dire: cosa che avveniva per la prima volta perché prima di allora nessuno aveva parlato sulla base di norme teoriche, sebbene parecchi fossero soliti parlare in uno stile chiaro e ordinato“ 2 Tuttavia nonostante il dinamismo culturale, nonostante sentissero fortemente la loro grecità, le città della Magna Grecia e della Sicilia non crearono un organismo politico unitario. Lo spirito particolaristico greco non smise di generare contrasti tra le città e si ripeterono gli errori che avevano causato il declino delle poleis della Grecia continentale. Nel corso del III sec.a.C la Magna Grecia e la Sicilia caddero sotto il dominio di Roma, ma il contatto con la civiltà greca modificò profondamente il mos maiorum dei conquistatori e come cantò in seguito il poeta Orazio “Graecia capta Latium cepit”. 1 Ida Biondi, Didascalica, Antologia della letteratura latina, vol.1-Ed. D’Anna, Messina-Firenze, 2001 2 Bruto 46, a cura di G. Norcio, UTET, 1976 (www.liberliber.it) Bibliografia De Sanctis –Storia dei Greci– La Nuova Italia, Firenze,1975 De Vido-Le poleis greche di Magna Grecia in L’antichità, (a cura di U. Eco),3. Grecia, La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso ,2013 Pintacuda-Trombino-Hellenes-vol.2-Palumbo Editore, Palermo 1999
Brevi considerazioni sulla solitudine
Una triste condizione dell’età contemporanea sempre più vasta e tragica. La solitudine non è una scelta, è una condizione, emblema della disgregazione sociale, della cultura egoistica del “sta lontano da chi pensa negativo” che isola, discrimina, emargina chi soffre. Giulio Massari – Emarginazione La solitudine è il male di una società in cui l’uomo è troppo focalizzato su sé stesso e, allo stesso tempo e ipocritamente, critica negativamente e/o allontana, gli altri che pure sono troppo focalizzati su sé stessi. La società contemporanea ci rende soli. L’esasperata ricerca del piacere, rigurgito e terrore per la sofferenza da cui si vuol fuggire a qualsiasi costo, persino con la sofferenza del “vuoto” e che, infatti, si risolve in uno stile consumistico: si consuma l’amore, si consuma il sesso, si consuma l’ideologia, si consuma il tempo. Nulla più si vive. Si consuma.
Esempi di credenze sociali, assunzioni, precetti disfunzionali
Idee irrazionali proposte da Albert Ellis: Io devo sempre essere amato, approvato, stimato da tutte le persone per me significative. Devo mostrarmi sempre competente ed adeguato in tutto ciò che faccio. Le cose devono andare in modo che io possa ottenere tutto quello che voglio subito e senza fatica, altrimenti il mondo è uno schifo e la vita non è degna di essere vissuta. Gli altri devono trattare tutti in modo corretto, e se si comportano in modo ingiusto o immorale, allora sono delle carogne e meritano di essere severamente puniti. Devono scontarla in un modo o in un altro. Se temo che possa accadere qualcosa di pericoloso o dannoso, allora devo pensarci continuamente, ed è giusto che sia agitato e sconvolto al pensiero delle eventuali conseguenze per poterle controllare meglio. Devo trovare soluzioni perfette ai miei problemi o a quelli altrui, altrimenti chissà cosa può succedere. La causa delle mie emozioni e dei miei sentimenti è sempre esterna, per cui posso fare ben poco per controllarli, per superare la depressione, l’ansia, il rancore … Il mio passato è la vera causa dei miei attuali problemi: se qualcosa nel passato ha influito pesantemente sulla mia vita, questo ormai condiziona irrimediabilmente tutti i miei sentimenti e comportamenti attuali. Ho bisogno di starmene tranquillo, senza responsabilità, sforzi, disciplina o autocontrollo. Devo sempre essere perfettamente a mio agio e senza sofferenze di nessun genere. Potrei impazzire e questo sarebbe davvero terribile! Mi considero debole, incapace, inadeguato, quindi ho bisogno di dipendere dagli altri e da qualcuno in particolare. Altri esempi di idee irrazionali: Se non sono amato, vuol dire che sono sbagliato; Se gli altri non mi stimano, significa che sono un fallito; Se gli altri non mi approvano, vuol dire che non valgo niente; Devo essere accettato da tutti; Devo sempre dimostrare di essere competente in tutto quello che faccio; Bisogna sempre essere efficienti; Bisogna sempre essere esperti; Il mondo è popolato da gente cattiva; Gli uomini sono egoisti per natura; Se le cose non vanno come desidero, significa che questo mondo fa schifo; Se le cose non andassero come dovrebbero, sarebbe una catastrofe; Le cause delle mie sofferenze non dipendono da me, ed io non posso farci niente; Le disgrazie umane sono sempre causate dal mondo esterno, e l’uomo è impotente di fronte ad esse; Devo pensare continuamente a rischi e pericoli che corro, è normale che sia preoccupato; Il mondo è pieno di insidie, perciò devo per forza essere preoccupato; Il passato è l’unica causa dei miei problemi, oramai sono segnato per sempre; I miei problemi dipendono dal mio passato, perciò sarò condizionato per tutta la vita; La tranquillità è nell’ozio; L’auto disciplina, gli sforzi, le responsabilità, sono nemiche della felicità; È meglio evitare di assumere responsabilità e schivare le difficoltà, piuttosto che doverle affrontare; Se non trovo soluzioni eccellenti ai miei problemi, chissà che può succedere; Sono debole e incapace, meglio dipendere dagli altri. Idee e concetti disfunzionali su noi stessi che ci limitano e bloccano ogni nostro percorso di cambiamento: sono troppo vecchio; sono troppo debole; sono troppo grasso; sono pigro; non capisco nulla; sono troppo aggressivo nelle relazioni; sono troppo passivo nelle relazioni; sono troppo povero; sono troppo ricco; non porto a termine mai nulla; sono un fallito; sono un timoroso; sono troppo serio; sono troppo leggero; sono distruttivo; sono razionale; sono pignolo; sono troppo emotivo. Motti, leitmotiv, assunzioni: Lo svago è una perdita di tempo; Dominare gli altri ti fa sentire meglio; Sfogarsi è salutare; Familiari e amici dovrebbero amarci qualsiasi cosa facciamo; La gentilezza sconfiggerà la scortesia; Non dire cose che possono ferire i sentimenti altrui; La perfezione dovrebbe essere il tuo scopo; Se concedi a qualcuno un dito, si prenderà un braccio; L’ultimatum appiana le discussioni; Parenti e amici sconsiderati devono essere ripagati col silenzio; Si può ottenere quasi tutto; Se vuoi che una cosa sia ben fatta, falla da te; Se le cose vanno male, trova qualcuno cui dare la colpa; La punizione è disciplina; Tieni i tuoi sentimenti per te; La prima impressione è la chiave per capire la vera natura delle persone; L’approvazione dei tuoi genitori è la cosa più importante; Successo e soldi danno la felicità; Se sarai vittima una volta, lo sarai per sempre; Sii modesto; non illudere te stesso; La critica è un buon metodo per correggere gli errori altrui; Non essere egoista; metti gli altri al primo posto; Il tuo partner dovrebbe amare i tuoi genitori e la tua famiglia; Facciamo tutti del nostro meglio se abbiamo grandi aspettative; È importante piacere a tutti; I problemi svaniscono se li ignori; Se giochi, gioca per vincere; Cerca di avere delle regole precise per te stesso e per gli altri; Se uno ti ama veramente, dovrebbe conoscere quello di cui hai bisogno; Gli insulti sono in grado di sconvolgerti; Essere duri con se stessi fa bene; Scusarsi cancella tutto; Prima di cambiare devi capire le ragioni del tuo comportamento; Nascondi i tuoi errori; quel che conta è aver ragione; Non sbaglierai se seguirai il tuo istinto; La vita dovrebbe essere giusta; Le persone felicemente sposate non dovrebbero sentirsi sessualmente attratte dagli altri; La tua parola è sacra: non infrangere mai una promessa; Sofferenza e duro lavoro forgiano il carattere. TRATTE DA "ADDIO TIMIDEZZA" DI LUIGI ZIZZARI
Carattere, temperamento e personalità
Tre elementi concorrono alla definizione dei tratti caratteristici di una persona, il temperamento, il carattere e la personalità. In un certo senso possiamo dire che sono l’espressione di ciò che è innato, di ciò che si apprende e si forma nel corso della vita, dell’interazione dinamica tra innatismo e apprendimento. Talvolta si tende a considerare ciascuno di questi fattori come sinonimo degli altri, generando un po’ di confusione. Allora vediamo di fare un po’ di chiarezza. Il temperamento Il temperamento è l’attitudine a sperimentare e reagire agli stimoli ambientali, con modalità tipiche della persona. Joan Miro – costellazione stella del mattino Ad esempio, quando parliamo della predisposizione a manifestare un’alta reattività ansiosa agli stimoli, ci si riferisce a un tratto del temperamento, però, il trasferimento dello stato ansioso in forme di ansia sociale, o in disturbi psichici in generale, non è proprio del temperamento, ma attiene ai processi cognitivi. Tutti i filoni teorici convergono sull’idea che: Il temperamento abbia una base biologica; Che abbia una significativa componente affettiva; Che sia sostanzialmente stabile nel tempo, ma le sue espressioni comportamentali mutano in relazione all’ambiente fisico e sociale; Che ci sia una relazione diretta tra temperamento e comportamento riguardanti le condizioni ambientali oppure che tale relazione insista solo nella prima infanzia; 100
Stragi, violenza e fondamentalismo nelle città occidentali
Le stragi che si stanno consumando da diversi anni, come quella nella clinica per aborti nel Colorado, quelle nelle scuole americane, l’estremismo islamico, ma anche fenomeni sociali come i black blok e altri, a mio parere sono tutti figli di un’unica origine: i modelli economici e sociali esistenti. In tutti questi casi, quando si è andati a vedere il background sociale e personale degli individui che si sono resi protagonisti di tali stragi, emerge un denominatore comune: sono tutti degli esclusi sociali, chi in un modo, chi in altri. Eugene Delacroix – la Giustizia Gente che vive ai margini della socialità, dell’economia, dell’affettività, schiacciati dal consumismo, da una competitività innaturale, deformata, dai modelli di uomo e donna veicolati dal bombardamento mediatico, da bisogni di consumo imposti. Persone emotivamente fragili, dominati dall’insofferenza dell’incertezza e della stessa sofferenza e che, pertanto, cercano valori, significati e significanti concisi, perentori, che diano poco spazio alla variabilità, alla pluralità. Avvertono il bisogno di certezze, di quelle assolute, di quelle che non vanno oltre la logica dicotomica, preferibilmente monotomica. L’unica diversità che riescono a percepire è la contrapposizione netta: o sei con me, o contro di me. Non è possibile il semplicemente diverso. Così l’altro, gli altri, possono essere oggetto di due soli sentimenti: odio e fratellanza. Il giovane che fa stragi nelle scuole americane, percepisce ostilità (reale o falsa) dagli altri che, pertanto, sono meritevoli di odio: sono gli altri i cattivi, lui, lo stragista, fa solo giustizia. 100
Piani temporali del possibile
La politica dovrebbe svolgersi su tre piani temporali, l’immediato, il medio e lungo termine, il futuro o utopia del presente. Nell’immediato, la pragmaticità è essenziale, non contano tanto i principi ma le azioni funzionali all’obiettivo. Data la relatività di validità o applicabilità dei principi, questi possono anche essere rinviati, negati o parzializzati. Ciò che conta, per l’immediato, è il risultato. Ernesto Treccani – infinito Hobsbawm sosteneva che un modello sociale e/o economico si forma nel seno dell’epoche che lo precedono. Come dargli torto? Nel medio e lungo termine andrebbero posti quegli elementi, o micro elementi, di trasformazione, il cui insieme, a un certo punto costituiranno un modello sociale diverso da quello precedente. Piccoli inserti che, pur non modificando il modello sociale corrente, introducono elementi che si radicalizzano nel tessuto culturale e sociale, senza che, nel presente, se ne colga la forza trasformatrice, ma che, a mosaico completato, pongono l’uomo nella condizione che, votando lo sguardo al passato, riconosce nel presente un diverso modello sociale. Qualcuno penserà di chiamarla “rivoluzione dolce”, per me è l’unica rivoluzione vincente possibile. La trasformazione che s’insinua nel quotidiano in modo silente, conforma le menti, le abitua e, infine sono considerate tanto “normali”, da essere accettate senza levate di scudi. Somiglia quasi alla storia evolutiva della specie umana: una lenta inesorabile trasformazione che oggi ci fa distinguere i primi ominidi dall’homo habilis e poi dall’homo sapiens. Ciò che oggi definiamo utopia, che è ascrivibile come tale solo nel presente, può essere realtà nel futuro; e nessuno può negare questa possibilità, visto che non si conosce il futuro. Nel corso del tempo, nuovi diritti si fanno strada, vecchi diritti diventano garanzie. Le menti, le culture, le percezioni, mutano in funzione delle condizioni del proprio tempo. E certi istinti, culturali o innati, si estinguono quando le funzioni che devono soddisfare sono già assicurate. In quel futuro, l’utopia di oggi, diventa uno scenario possibile.
Il mondo intimo di Mariarita Renatti
Oggi vi presento una artista che mi ha molto colpito, sia per la sua ricerca pittorica, sia per la sua “investigazione” sul mondo interiore. Si chiama Mariarita Renatti e le ho chiesto di raccontare un po’ di sé. Pubblico con piacere la sua breve ma esauriente biografia. Come tutto è iniziato … Da bambina ero molto timida e introversa e il mio modo per comunicare con i miei compagni a scuola era preparare loro dei disegnini , un modo semplice per me di esprimermi,e i loro occhi stupiti mi facevano star bene , mi sentivo accettata. Inizialmente non riconoscevo all’arte un ruolo primario, amavo leggere e fare puzzle, ascoltare musica, amavo il pianoforte…il mio sogno “mancato”. Mariarita Renatti – la santa carnalità Successivamente, a partire dalle scuole superiori ho dato sempre più importanza al disegno, ho iniziato a disegnare coi carboncini, poi mi son dedicata alla pittura per un lungo periodo, ma mi resi conto che essa non rispondeva alle mie esigenze, ne seguì un periodo di ricerca, il cosiddetto “buio creativo” in cui cercavo una mia identità. Mariarita Renatti Il mio Maestro Aniello Scotto, mi ha aiutato a capire come sviluppare al meglio i pensieri, ho avuto la fortuna di conoscerlo fin dai primi anni dell’università, all’Accademia di belle arti, che tutt’ora frequento, grazie a lui ho conosciuto l’incisione , una tecnica che ho amato fin da subito, abbozzavo le mie idee a penna, su semplici fogli da stampa che avrei poi riportato su lastre di rame. Successivamente, per caso, ho iniziato a ricoprire pezzi di stoffa a penna, mi resi conto che rispondeva bene alle mie esigenze, iniziai così un nuovo percorso creativo. Questa tecnica cui mi dedico, quasi esclusivamente, oltre all’incisione a puntasecca su rame, si basa su una serie di segni da cui prende “vita” un corpo, un insieme di corpi, le mie creature, i miei sogni, le mie insicurezze e tutto ciò che riesco a raccontare di me, racchiudendole tutte, spesso, in un fondo nero, anch’esso realizzato completamente a penna, così da eliminare ogni altra cosa e concentrare lo sguardo solo su “quel” racconto. Mariarita Renatti – rinascita Ritraggo spesso corpi nudi, ho iniziato con degli autoritratti, “Rinascita” la mia prima opera, a cui sono molto legata, mi sembrava un buon modo per iniziare un nuovo percorso artistico. Corpi che rientrano in se stessi, che fuoriescono da esso..attraverso le increspature della pelle e le ombre, che si creano con le luci, a far si che gli occhi di chi guarda, ponga l’attenzione non sulle bellezze delle forme, ma entrando più in profondità, nell’anima…come leggere i miei intimi pensieri. Mariarita Renatti – zia Pupetta I soggetti che prediligo sono le donne, in particolare quelle di cui conosco una storia , Mia madre, Mia nonna… Non è stato facile convincerle a posare per me, son molto lontane dal mondo dell’arte e non capivano la mia necessità di ritrarle, tutt’ora ho difficoltà a farmi capire, pensano a me come la pecora nera, la “folle” della famiglia, ma mi seguono ovunque e sono molto fortunata poiché hanno sempre supportato la mia passione. Mariarita Renatti – Madonna con le babbuccie Disegnare significa, per me, distaccarmi dalla realtà, creare il MIO mondo, è la mia “cura”, decidere di dedicarsi all’arte è una scelta, scegliere di fare l’artista è davvero complicato ma se non facessi questo, non saprei cosa farne della mia vita, sinceramente.
La difficoltà a teorizzare nuovi modelli sociali
Un grosso problema che si riscontra quando si prova a teorizzare un modello sociale per il futuro, è l’incapacità di sganciarsi dagli schemi mentali del presente che, in genere, hanno un lungo retaggio storico. Questa rigidità fa si che si ragiona secondo modelli e modi elaborativi che ripetono gli schemi valutativi attuali e viziando, quindi, il ragionamento che riguarda il futuro. C’è anche un altro errore cognitivo di fondo che investe la persona quando si prova a immaginare e ipotizzare un modello economico diverso da quello mercantile (si definisce società mercantile quella il cui sistema economico è caratterizzato dallo scambio di merci), ed è la confusione che si fa tra istinto e cultura. La tendenza dell’uomo a ricorrere allo scambio di beni, non è un comportamento istintivo ma culturale. René Magritte – la condizione umana L’uomo ha cominciato a fare così, già nella preistoria, perché in condizioni di diffidenza e di non cooperazione produttiva e sociale, era il modo più adatto a stringere relazioni fra tribù, comunità, popoli: una strategia comportamentale, frutto di un processo di elaborazione mentale, che oggi chiamiamo problem solving. Lo scambio è un comportamento finalizzato a concretizzare vantaggi reciproci tra gli attori che vi partecipano e a favorire una relazione continuativa. Infatti, se tutti gli attori ricavano un beneficio da un determinato comportamento, tendono a ripeterlo nel tempo. Questo è un comportamento culturale. Oggi sappiamo che quando un comportamento è reiterato nel tempo, diventa abituale non solo la sua pratica, ma anche l’attivazione dello schema cognitivo che lo sottende. Quest’abituale binomio schema cognitivo/comportamento, facendo parte dell’esperienza e della memoria dell’uomo, infatti, è un fatto culturale, diventa oggetto di trasmissione di conoscenza. Genitori, figure di riferimento e prassi sociale, trasmettono ai nostri bambini tale binomio culturale schema cognitivo/comportamento, e questi lo apprendono. La trasmissione generazionale di conoscenze diventa prassi, norma sia culturale sia giuridica. I contenuti entrano nel novero ”dell’ovvio”, dello “scontato”, persino del “banale”, in termini di cognizione diventano una routine, quindi, non subiscono ma bypassano ogni processo di rielaborazione e invalidazione. L’uomo si abitua in modo radicale a questi schemi cognitivi, essi sono andati consolidandosi nel tempo, tanto che la loro natura culturale risulta meno riconoscibile all’uomo stesso che giunge a considerarli parti costitutive della natura umana. Quando la mente associa alla natura umana il contenuto di uno schema cognitivo, questo s’irrigidisce, tende a diventare un’assunzione permanente e immodificabile, la sua validità acquisisce valore assoluto. Da qui la difficoltà dell’uomo di riuscire a teorizzare, ipotizzare, a volte persino a immaginare, modelli sociali che vanno in conflitto con schemi cognitivi di base. Dato che i contenuti di tale schema cognitivo è considerato come costitutivo della natura umana, non solo non riesce in tali elaborazioni, ma le considera impossibili o improponibili. Tuttavia, va ricordato che tutto quanto è oggetto culturale è fallibile e, nel momento in cui è interpretazione del mondo reale, e appartiene al dominio della descrizione non della realtà.
Fronteggiamento di ansia sociale e timidezza: i principi cardine della mindfulness
Nella mindfulness, il praticante, dato che assume il ruolo dell’osservatore, non ha il compito di giudicare. Egli si muove nel campo della descrizione. L’assenza del giudizio è di fondamentale importanza se vogliamo evitare di cadere nelle trappole mentali dell’emotività che ci riconsegnerebbe prigionieri dei pensieri negativi. L’assenza del giudizio comporta un atteggiamento di accettazione della realtà delle cose così come sono. Salvador Dalì – incontro dell illusione col momento fermo Il mondo reale che si presenta dinanzi a noi, non è altro che un insieme di cose già date, di dati di fatto che non possiamo più modificare o evitare perché sono già accadute, fanno parte del tempo che è trascorso. Infatti, solo ciò che sta per accadere è suscettibile di modificazioni. La realtà delle cose va accettata perché essa è la nostra vita fino al momento presente. La realtà delle cose va accettata perché essa, è ciò che è, a prescindere da noi stessi. Non dimentichiamo, però, che l’accettazione presuppone anche l’impegno a prestare pazienza. 100
Relazione tra scelta e razionalità nella timidezza e le altre ansie sociali
Benché nella timidezza e in altre ansie sociali, i comportamenti risultano non essere funzionali a una vita sociale soddisfacente, è un errore pensare che un individuo timido, un ansioso sociale in generale, sia una persona che non faccia scelte nelle situazioni ansiogene. L’evitamento, la rinuncia, la fuga, sono – sempre e comunque – il risultato di una decisione e, pertanto una scelta di cui il soggetto è cosciente, anche se spesso non pienamente consapevole. Un processo razionale è quello che utilizza al meglio le informazioni (conoscenze) che si posseggono. Utilizzare al meglio, non implica – necessariamente – il successo dell’azione conseguente. Gino Severini – i giocatori di carte Se le informazioni che si posseggono sono falsate, errate, ecc, il processo razionale non può che giungere a conclusioni improduttive. In tal caso, il problema non sta nella logicità del processo razionale, ma nella carenza qualitativa delle informazioni possedute. Ora l’ansioso sociale (timidezza, fobia sociale, disturbo evitante della personalità, ecc) ha, nell’insieme delle sue informazioni possedute (conoscenza), una parte di dati di base (credenze) non confacenti alla realtà, soprattutto quelli che riguardano la definizione del sé e degli altri. 100
considerazioni fugaci sul nulla e sul pieno
Roland Barthes definiva quella occidentale, la cultura dei pieni, contrapposta a quella orientale classica chiamata dei vuoti. Chi parla del nulla (vuoti) se non ha cose da fare, parla di ciò che il semiologo francese chiamerebbe “riempitivi”. Penso che dovremmo imparare a godere di ambedue le condizioni e, in un certo senso, a vedere un pieno anche nel nulla. Il nulla è una dimensione che solo l’uomo poteva concepire. Il nulla è un’assenza, ma di cosa? Penso che sia assenza di ciò che, individualmente, vorremmo ci fosse o riteniamo debba esserci. Non un’assenza assoluta, ma un’assenza relativa: ai nostri bisogni, necessità, desideri, cognizioni del tempo, della materia e dell’energia (nei suoi vari intendimenti). Tiziana Trezzi – tra… Per altro verso può anche trattarsi di paura del non essere. Se ritieni di non aver niente da fare, è come se ti sentissi nella condizione di non vivere, di non essere, di non affermarti sia come soggetto sociale, sia come soggetto interagente con lo spazio che ti circonda e con il tempo. Se adotto questa visione, c’è l’implicazione del rapporto tra tempo e pieno, e tra tempo e vuoto. Anche perché la nostra vita è scandita dal giorno e dalla notte, dal sonno e dalla veglia, e dalla necessità di produrre la nostra sopravvivenza, non solo biologica, ma anche sociale e culturale. Mentre in tanti stanno a domandarsi quale sia il senso della vita perché, in fondo, la vorrebbero associare necessariamente a qualcosa, io penso che sia quella domanda stessa a non avere senso. Il senso della vita è la vita stessa. Tu che ne pensi?
Pensieri sciolti sulle dimensioni temporali del mutamento interiore
Penso sia un errore di fondo tendere a “assolutizzare” concetti e principi. Personalmente ritengo che principi, concetti, idee, non abbiano una validità assoluta, cioè non sono valide o giuste sempre e comunque, ma “a condizione”, a determinate situazioni contingenti, storiche ecc. Così come ritengo che certi principi, benché teoricamente o Piet Mondrian – evoluzione emotivamente condivisibili, non siano attuabili o non debbano essere attuati in determinate condizioni. Un esempio fra tutti, la pace: non puoi cercare la pace con chi ha tutta l’intenzione di ucciderti, non puoi scendere a patti con l’isis quando il suo scopo culturale, mentale, politico e militare è di sottomettere il mondo occidentale alla legge della sharia e all’islam arcaico. A mio parere, il mutamento è una variabile dipendente, ed ha anche diverse dimensioni. Se parliamo dell’uomo, allora direi che le dimensioni possono essere, neuro-temporale, cognitivo-temporale, socio-temporale, percettivo-temporale. Dimensioni che possono anche essere interagenti, ma tali interazioni danno vita ad altre dimensioni: il che sta già a indicare che il tempo delle modificazioni abbia diverse modalità e scale di misura. La scala di misura cognitivo-temporale non è la stessa della percettivo-temporale e non è la stessa della socio-temporale. Cosa voglio dire? Che non puoi far coincidere la velocità della variazione tra diverse dimensioni. La probabilità è un concetto in gran parte statistico. Solo se un evento si è già verificato, posso affermare che tale evento è possibile. E se l’evento si è verificato con una certa frequenza o in una data quantità, posso affermare che esso è probabile. Ma il fatto che un evento è possibile e abbia una determinata probabilità statistica, non significa che si debba necessariamente verificare. D’altra parte i concetti stessi di possibilità e probabilità sono veri a condizione che ci sia anche l’implicazione del non verificarsi. Se tale implicazione non esistesse, non dovremmo parlare di possibilità o di probabilità, ma di certezza.